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106 uomini

  • Immagine del redattore: voci coro
    voci coro
  • 14 gen
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 21 gen

Un sorso d'invisibilità 



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Sono le 5.30 di una fredda mattina di dicembre e sono alla guida della mia vecchia Yaris grigia, che poi mia non è, ma di Geppo, mio padre.

Diversi anni fa, con estrema lungimiranza, decise di acquistarla da mia cognata e portarla qui per usarla nei mesi estivi.


Benedetto sia quel giorno e benedetto sia mio padre!

Senza lui e la sua saggia decisione avrei dovuto costringere Gabriella ad accompagnarmi o chiedere al sempre presente zio Gianpiero l’ennesimo favore, obbligandolo alla levataccia che in tanti continuano a sostenere per colpa di trasporti deplorevoli che relegano questo pezzo d’Italia a fanalino di coda nella copertura della rete ferroviaria.


Ma torniamo alla guida, meglio non distrarsi su questa strada maledetta che tante vittime ha già mietuto.


Sto percorrendo la statale 106 in direzione Sibari e mi sto auto-accompagnando alla stazione perché a breve devo prendere il treno che mi condurrà al nord.


Fuori fa freddo.


Guardo il termometro dell’auto che segna 5 gradi e penso “ecco lo sapevo, avrei dovuto mettere il cappello a forma di cuffia per proteggere nuca e collo, non la coppola! Quando scenderò avrò sicuramente freddo.”


Sono ipocondriaco e paranoico, un mix letale, ho bisogno di distrarmi, meglio accendere un po’ la radio.


Stanno trasmettendo l’ultima di Marracash, alzo un po’ il volume :


“…Lavori umili, vestiti sudici in buchi umidi, uomini ruvidi a trenta ruderi con gli occhi lucidi...”


“…vado a letto la notte che muoio e mi sveglio che sono quasi in fin di vita…”


“…faccio tutto a basso prezzo…”


Come un vecchio pugile vengo preso a schiaffi dalle parole del brano e la rabbia del rapper milanese mi porta a spalancare gli occhi già ben aperti per l’attenzione che sono solito mettere alla guida.


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E proprio in quell’istante davanti a me, sul ciglio della strada, di nero vestito, ecco comparire un uomo che cammina da solo senza nemmeno uno di quei giubbotti catarifrangenti ad illuminarne la solitaria esistenza.

Poche decine di metri più avanti ce n’è un altro e poi un altro ancora.


L’alba è ancora lontana eppure la strada sembra già essere popolata.


Continuo a guidare, tengo le mani strette sul volante e cerco di concentrarmi sulle linee nell’asfalto, mentre la canzone giunge al termine.


Il testo appena ascoltato inizia a rimbombarmi in testa, ogni strofa ha raccontato la dura vita di coloro che s’inventano di tutto per sopravvivere in un mondo difficile che tende a lasciare indietro gli ultimi aumentando a dismisura le diseguaglianze tra i pochi ricchi e i tanti, troppi, poveri.


Nella nostra città, tra i tanti factotum, ci sono anche loro! Uomini soli, costretti per la loro fragilità ad accettare condizioni lavorative a volte disumane, che camminano per raggiungere gli agrumeti della zona e raccogliere arance e clementine, riporle nelle cassette e consentire a tutti noi di goderne sulle tavole imbandite.


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D’improvviso ritrovo nella mente la collezione di tutte le immagini captate inconsapevolmente in questi anni, non è la prima volta che vedo questi uomini. 


Alla guida, spesso, mi sono imbattuto in loro: di giorno o di notte, al crepuscolo, con il vento e il caldo torrido, sotto i fulmini, con il freddo pungente e con la brina, da soli e in compagnia, con le buste della spesa e con l’acqua sulla testa, con la bici e a piedi scalzi, stanchi, chissà sognanti o afflitti perché quei 30 ruderi serviranno ben poco alle famiglie lontane, da tempo abbandonate.


Alla mente riaffiora il ricordo del mio vecchio amico Happiness, conosciuto anni fa davanti a un supermercato intento a racimolare qualche spicciolo. Ricordo le nostre chiacchierate e i racconti sulla dura vita nei campi con una paga misera per un lavoro che non nobilita, ma disonora.

Si mischia con quello dei vestiti sporchi di fatica del vicino rumeno di mia suocera che stremato torna dalla terra in cui ha gettato sudori di sopravvivenza e s’intreccia con le figure di tutti i nordafricani, pakistani e indiani stipati in piccoli furgoni pronti per una nuova, estenuante giornata di raccolta.


L’epifania di immagini lentamente si dipana e mi rendo conto di essere ormai giunto a destinazione.


Sono in anticipo sulla partenza e così decido di fermarmi al bar per fare colazione.


Entro con gli occhi lucidi, sopraffatto dall’emozione del viaggio in cui sono stato accompagnato dalle vite di questi uomini erranti.

Saluto il barista e per brindare allo strenuo, incessante lavoro di tutte queste persone e alla loro esistenza celata nei terreni rigogliosi chiedo :


“Una spremuta d’arancia per favore”



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