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Angelo

  • Immagine del redattore: voci coro
    voci coro
  • 11 nov
  • Tempo di lettura: 3 min

Parrucchieri generazionali


Ho incontrato Angelo tante volte. Sempre sulla sua vespetta rossa, la chioma bianca che sventola leggera, come un segno di riconoscimento, nelle strade del centro storico di Rossano.


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Non c’era volta che non attirasse il mio sguardo: una presenza discreta, quasi silenziosa, ma impossibile da ignorare. E poi quell’insegna, Angelo parrucchiere dal 1988, letta decine di volte passando davanti alla sua bottega. Un’insegna semplice che sembrava resistere senza bisogno di luci al neon o vetrine vistose.

Per mesi mi sono limitata a osservare. A pensare: “Un giorno entrerò.” E quel giorno è arrivato senza preavviso. Ho spinto la porta, mi sono guardata intorno e, senza esitazioni, ho detto: “Vorrei prenotare taglio e colore.” Non ho chiesto niente di più, nessuna prova, nessuna spiegazione. Mi sono fidata del mio istinto. E fidarsi, in questo caso, non è un gesto banale. Lo sanno bene le donne, e forse anche certi uomini, (escludendo i calvi come mio marito) che lasciare i propri capelli nelle mani di un estraneo è un atto di puro coraggio.

Il salone di Angelo non ha bisogno di scenografie. Niente specchi abbaglianti, niente erbette finte appese alle pareti, niente sedie in pelle lucida dal design “wow”. Tutto è essenziale, misurato: due sedie per aspettare, due per lavare, due per asciugare. La geometria perfetta di una coppia che resta coppia. Senza fronzoli. Senza rumore.

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Angelo mi scioglie i nodi come si faceva una volta. Ogni tanto un capello che tira, giusto per sentirlo. Pettina e basta. Un gesto che sembra d’altri tempi, e che proprio per questo mi conquista.

La memoria allora mi porta a Schiavonea, da Giancarlo. “Il migliore”, diceva mia madre. Il suo salone era un piccolo teatro: gli asciugamani stesi fuori all’ingresso, i manifesti enormi della L’Oréal con modelle dai capelli irreali, almeno una con un ciuffo colorato. Poi i poster: quello del liscio e quello del corto, sempre uguali da anni. E io, che di ricci ne avevo troppi, passavo i pomeriggi a cercare di cancellarli.

Lì, ogni anno, mi sottoponevo al famoso “stiraggio”. Due ore di resistenza fisica e mentale: l’odore quasi sulfureo, che ti avvolgeva come una nube, l’immobilità assoluta — se un capello si piegava, rimaneva storto per mesi. Isolata in un angolo di salone guardavo mia madre, persa nelle chiacchiere mentre le pettinavano e le asciugavano i capelli, poi giravo lo sguardo e vedevo Giancarlo sempre con una signora diversa , le ragazze che si muovevano senza sosta: tagliavano, mettevano bigodini, phonavano, mescolandosi tra loro in una danza continua. Cinque persone in movimento, mai ferme, mai silenziose. Ogni tanto una mano controllava a che punto fosse la mia stiratura. Io, intanto, fissavo il mondo degli adulti con la curiosità di chi non vede l’ora di entrarci.

E forse è per questo che, quando oggi mi siedo da Angelo, ritrovo la stessa atmosfera familiare. Diversa, più essenziale, ma con la stessa magia sospesa nel tempo. Anche qui, sul tavolino, ci sono Di Più Tv e Novella 2000. Riviste fresche, di pochi giorni fa.


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“Incredibile”, penso. Da sempre i parrucchieri hanno il gossip aggiornato, come se fosse parte integrante del mestiere.

Poi arriva il momento che aspettavo. Il taglio. Solo forbici e pettine. “Non sfoltisco, taglio.” Io mi abbandono. Fiducia cieca. In dieci minuti, con la velocità e la maestria di chi lo fa da quarant’anni, Angelo mi sistema.

Una passata di phon ed è fatta. Mi guardo. Toccare i miei ricci — loro, i sopravvissuti — è come sfiorare una storia intera: gli anni di piastre e phon bollenti, il tempo sprecato a negare quello che ero. E ora eccoli, vivi, di nuovo liberi.

Guardo Angelo e sorrido Forse non lo sapeva, ma mi ha restituito qualcosa che avevo dimenticato.

1 commento


ginocampana.1
14 nov

Anche un semplice taglio di capelli può diventare poesia. Grazie.

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