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Francesco Maria

  • Immagine del redattore: voci coro
    voci coro
  • 7 ott
  • Tempo di lettura: 2 min

La nobiltà del restare


Era bastata una telefonata — una di quelle nate per parlare di bandi, fondi, cambi di destinazione d’uso — e finite, chissà come, a parlare di antiquariato. Così, il giorno dopo, Gabriella ed io abbiamo ripreso la via di Corigliano, dopo tanto, troppo tempo, e siamo andati a trovarlo, spinti più dalla curiosità che da un reale appuntamento.

Il suo negozio, ai piedi del castello ducale, era chiuso.

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Niente vetrine, solo una di quelle porte degli antichi palazzi che non lasciava intravedere nulla all’interno. E proprio per questo la curiosità cresceva, come davanti a un segreto che chiede di essere svelato.

Non abbiamo chiesto di lui. Siamo entrati, come sempre, nel circolo accanto — un luogo che profuma di abitudine e panorama, dove il tempo si siede accanto a chi lo sa aspettare. E lì lo abbiamo trovato: seduto a un tavolo con un amico, intento a gustare una bruschetta al pomodoro.


Nell’aria c’era odore di campi, di natura, di limone, di quella semplicità che sa di casa anche quando non è la tua.

Ci siamo seduti con lui, ascoltandone i racconti e rimanendo ammaliati dal suo fascino. Postura regale, eloquio elegante, giacca blu impeccabile e una spilla d’argento sul petto. «Era della

mia trisavola», ha detto con un sorriso lieve, come chi porta addosso una memoria preziosa ma senza farne vanto.

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È stato un attimo semplice e perfetto: l’eleganza dei modi, la naturalezza della condivisione, il suono di parole che parlavano di un sogno — aprire un piccolo locale nel palazzo di un amico, pieno di oggetti che raccontano la vita di chi li ha posseduti.

Più tardi ci ha invitati a entrare nel suo spazio.

Non era spoglio, tutt’altro: piccolo e accogliente, con lampade dalle linee sinuose, mobili che parevano aver vissuto più vite, e il profumo caldo del legno antico. Sullo sfondo, il piano di Einaudi riempiva la stanza di una malinconia lieve, che si mescolava al silenzio di un passato glorioso ancora presente tra quelle mura. Ogni oggetto sembrava respirare, raccontare, chiedere di essere guardato non come cosa, ma come memoria.

Fuori, il ronzio dell’oggi — motorini, voci, sirene lontane — dentro, un tempo che scorreva lento, quasi a proteggere la sua essenza. Nei suoi occhi c’era una nostalgia viva, ma anche una forza gentile.«Da bambino correvo per queste strade,» ha detto piano, «ora vorrei solo che tornassero a profumare di speranza.»

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L’ho guardato e ho pensato che forse la rinascita di un luogo passa proprio da gesti così: un uomo che decide di restare, di credere ancora nella bellezza, di ridare dignità al tempo. Forse è questo, in fondo, che cerchiamo anche noi con Voci in Coro: custodire la memoria, raccontare la vita, farla risuonare ancora tra i vicoli e le pietre.


Perché l’esistenza, chissà, a volte ricomincia proprio da una porta chiusa, da un incontro inatteso, da un sogno che ha la forma di una stanza piena di storie.


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