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Gina ed Ernestina

  • Immagine del redattore: voci coro
    voci coro
  • 3 giu
  • Tempo di lettura: 3 min

Il Rosario e la chiavi tra le mani  


In questi giorni, insieme a Gina, abbiamo camminato per uno dei rioni più antichi e meno raccontati del centro storico di Rossano: il ciglio della torre.

Il nome, che suona quasi poetico, ha radici concrete: nel Quattrocento, qui sorgeva una torre decorata con gigli, appartenente alla nobile famiglia Marzano. Era un punto strategico, sulla sommità della città, da cui si poteva scrutare il mare e intuire per tempo l’arrivo di possibili minacce. Intorno a quella torre, nel corso dei secoli, è nato un piccolo nucleo urbano fatto di palazzi, cappelle, vicoli stretti e pendenti che oggi sembrano periferia, ma che un tempo erano centro e presidio.

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La torre è scomparsa, così come la grande chiesa dei Santi Fabiano e Sebastiano che una volta le faceva da contraltare. Ma qualcosa è rimasto. Non visibile a tutti, non segnato sulle mappe: solo le presenze che resistono in silenzio, nascoste nella trama della quotidianità.


Tra queste, la chiesetta di Santa Maria di Schiavonea, che apre le sue porte solo un mese l’anno, a maggio.

Gina in questo quartiere ci è cresciuta.


Lo conosce a memoria, con l’affetto che si riserva ai luoghi che hanno visto tutto: i giochi da bambina, le corse per strada, la libertà semplice di chi ha avuto la fortuna di nascere in un luogo dove le strade diventano cortili, e i cortili diventano casa. Quegli spazi in cui gli schiamazzi festosi dei giochi si mischiano con le chiacchierate delle donne affacciate ai balconi nell'attesa della sera.

Quando siamo arrivati davanti alla chiesetta, la porta era chiusa. A pochi metri, in un’abitazione discreta, abita la signora Ernestina, l’unica a custodirne le chiavi. Un dettaglio che qui non è solo pratico, ma simbolico: le chiavi si tramandano di mano in mano, da donna a donna, come si trasmettono le cose preziose, con amore e fiducia.

Dentro, la chiesetta accoglie con una dolcezza antica. L’altare è ricoperto di fiori freschi, semplici, ma curati. Sulla parete centrale troneggia l’immagine della Madonna nera, con quello sguardo che consola e ammonisce insieme. Ai lati, quadri del Sacro Cuore di Gesù e altre icone sacre raccontano una fede quotidiana, tenace. Le pareti sono segnate dal tempo: l’intonaco si sfoglia, lasciando scoprire strati più antichi, come se anche i muri volessero parlare.

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“Anche mia nonna veniva qui,” dice Gina, illuminata dal sole che entra dalla porta socchiusa “Anche la mia,” rispondo.

Due nonne, due vite che in tempi diversi hanno condiviso la stessa aria e le stesse preghiere.


Oggi, io e Gina camminiamo su quelle stesse strade accomunati dal desiderio di non perdere quello che c’era.

E in questo piccolo luogo che si apre solo a maggio, sembra che il tempo non sia mai davvero passato.


Ogni sera di questo mese, le donne del rione si ritrovano qui per recitare il Rosario. Le anziane con le voci basse e sicure, le giovani attente, i bambini curiosi che imparano il ritmo dell’Ave Maria ascoltandole ripetere. Non ci sono messe né cerimonie solenni. Ma c’è una fede vera, vissuta. Una spiritualità condivisa che si rinnova ogni giorno, senza bisogno di essere spettacolo.


Gina ed Ernestina pregano spesso insieme, sedute vicine, sgranando le loro corone e accarezzandosi con gli occhi.

Certo, per molti questo rione è solo una zona marginale, dimenticata, talvolta raccontata con sospetto o timore. Ma dietro quelle etichette, spesso troppo affrettate, si nasconde la forza e la magia di un passato che continua a vivere nel presente. Basta avere occhi per vedere e cuore per ascoltare.


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Non ci sono microfoni, né sedie perfettamente allineate, ma c'è la presenza. Quella che non ha bisogno di apparire per esistere.


Ogni maggio, la chiesetta si risveglia nelle sere di primavera. E poi torna al silenzio.

Socchiudendo la porta sulla memoria e pronta ad aprirsi ancora, ogni volta che qualcuno avrà la cura e il coraggio di bussare.



Perché le storie, come le chiavi, passano di mano in mano.E sta a noi custodirle.

Non per chiuderle dentro, ma per continuare ad aprire.


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