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Marcudd u' piciar

  • Immagine del redattore: voci coro
    voci coro
  • 3 nov
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 4 nov

Campane in fiera 


Fin da quando ero bambina, le giornate dell’1 e del 2 novembre sono sempre state per me un po’ particolari. I ricordi che ho di questi giorni sono legati ai mazzi di fiori che portavo con i miei genitori a chi non c’era più e alle bancarelle della fiera, che amavo osservare una ad una. La fiera dei morti "ara Scavunia" era un appuntamento immancabile per la mia famiglia.

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Quest’anno, dopo un paio d’anni di assenza, sono tornata: l’ho trovata uguale, eppure diversa in alcuni aspetti, cresciuta e di molto. Ora la mia attenzione non è più attirata dai giocattoli o dalle caramelle, ma dai commercianti che cercano di vendere i loro prodotti e vincere la gara alla contrattazione con chi vuole acquistare qualcosa al prezzo più conveniente. Sentendo le loro voci si riconoscono vari accenti e dialetti: ci sono i venditori locali, ma anche quelli che vengono dalla Campania, dalla Basilicata o dalla Puglia. 

Mentre passeggio tra le bancarelle ne noto una un po’ diversa dalle altre. Qui non ci sono i soliti vestiti, le scarpe o le tende, né lampadari o oggetti decorativi. Quello che cattura la mia attenzione sono delle campane: alcune piccole, altre più grandi; alcune dorate, altre marroni. Non parlo delle campanelle di ceramica, quelle belle da appendere in cucina, ma delle campane per gli animali, i cosiddetti campanacci. Alcune le ricordo sul camino di una mia zia, da bambina mi divertivo a giocarci; le altre, invece, mio nonno Marco le conservava nella sua stalla, quella che aveva l’odore caratteristico di asini, muli e cavalli. Lui e papà mi dicevano sempre di respirare a pieni polmoni quell’aria: era un toccasana per la mia salute, nonostante l’odore fosse tutto tranne che gradevole per una bambina.


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Il proprietario di questa bancarella si chiama Lucio ed è conosciuto come "u campanar": è un uomo sulla cinquantina e con la sua famiglia viene qui da Salerno da oltre quarant’anni. Oggi vende prodotti in rame, come campane, pentole, bracieri, insieme a qualche articolo in rivendita, ma mi racconta che anni fa la sua bancarella era molto diversa. Lucio è un artigiano e ha imparato a lavorare il rame da suo padre, che aveva ereditato il mestiere da suo padre e così via, di generazione in generazione. Quando veniva qui da ragazzo, questa era per lo più una fiera di animali: la sua famiglia vendeva le campane e altri prodotti agli allevatori, ai mulattieri, ai calzolai e agli stagnini. Oggi, però, mi dice che lavorare il rame è diventato quasi impossibile: i costi della materia prima sono aumentati, è un vero e proprio investimento creare qualcosa con il rame, e si è dovuto adattare ai tempi attuali. Eppure, continua a fare chilometri, girando per l’Italia con la sua bancarella, spostandosi da una fiera all’altra. «Fin quando mi permettono di lavorare, io lo faccio», mi dice salutandomi.

La sua storia è un po’ la storia di tanti artigiani italiani e di chi ha vissuto per anni lavorando la terra e quello che essa dona, un po’ come hanno fatto i miei nonni. 

Questa chiacchierata mi riporta subito alla mente mio nonno Marco, conosciuto da molti nella zona come "Marcudd u piciar".

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Ricordo quando io e mio fratello, dopo essere stati alla fiera, andavamo a trovarlo; lui, ormai un po’ più in là con gli anni, non riusciva a sostenere il ritmo di quelle lunghe passeggiate, ma la prima cosa che ci chiedeva era se ci fossero ancora animali in vendita.

Il nonno era un mulattiere, l’ultimo "muletter" a Rossano, e per lui, come per Lucio, questa era una fiera di animali. Mio padre mi racconta che quando il nonno era più giovane, con il suo mulo partiva da San Marco, nel centro storico di Rossano, e raggiungeva Schiavonea, per vendere o comprare muli, cavalli e asini. Questi animali, per lui, non erano solo animali: grazie a loro il nonno ha potuto sostenere le spese di una famiglia di 8 persone. Andava per giorni per le montagne della zona a raccogliere legna, portava sui cantieri sabbia, mattoni, tutto il materiale edile usato dai muratori, attraversando sentieri che altri mezzi di trasporto non riuscivano ad affrontare. 

Erano parte della famiglia, e così è stato fino ai primi anni 2000. Anche dopo la pensione, il suo unico pensiero era quello di andare alla stalla per accudirli.

Ho ancora impressa l’immagine del nonno che attraversa Rossano a dorso del suo mulo, con la coppola in testa e la camicia annodata. Era uno di quegli uomini “di una volta”, tutto d’un pezzo; era impossibile distinguere il lavoratore dall’uomo e l’uomo dal lavoratore. Aveva appreso questo mestiere da suo padre, e lui dal suo di padre, come era sempre stato nelle generazioni precedenti, come per Lucio; il nonno, a sua volta, ha insegnato il mestiere del mulattiere ai figli, che, nonostante abbiano preso poi altre strade, raccontano ancora delle giornate trascorse fin dalla tenera età a lavorare con lui.

Oggi il mestiere del mulattiere a Rossano non esiste più, un po’ come tanti altri mestieri che si sono persi nel tempo.

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Mentre penso alla chiacchierata con Lucio e ricordo il nonno, capisco che certe cose non scompaiono davvero. Restano nelle mani di chi ha lavorato, nei racconti che continuano a passare da una voce all’altra, nel suono di una campana che ti riporta indietro nel tempo, negli odori che non puoi mai dimenticare. 




Forse la fiera non è più quella di un tempo, e forse questi mestieri non torneranno. Ma la memoria torna, ci scalda il cuore e ci ricorda quanto siamo stati fortunati. Lo fa soprattutto in giornate come queste, quando le assenze si fanno sentire un po’ di più.


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