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Quelli dell'enel

  • Immagine del redattore: voci coro
    voci coro
  • 1 lug
  • Tempo di lettura: 4 min

Supereroi con il cacciavite in mano



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Da che ho memoria, sapevo di essere tornata a casa non appena, sbucando da una curva della 106, gridavo:

«Zio Franco, siamo arrivati!»

Poi, crescendo, diventò:

«L’Enel! Siamo arrivati!»


Un’esclamazione che era una certezza. Le torri svettavano come sentinelle. Lì finiva il viaggio, lì cominciava di nuovo Rossano.


Ebbene sì, mio zio Franco era uno dei figli di Mamma Enel. Apparteneva a un vero Ordine di supereroi senza mantello: una nobiltà operaia riconoscibile dalla camicetta blu con il simbolo dell’albero e la scritta ENEL marchiata sul petto.

Uomini capaci di tutto: passano dall’elettricità alla muratura con la stessa naturalezza con cui si sbuccia una mela. Coltivano l’orto, sistemano i tubi, montano mobili, aprono quadri elettrici come se stessero leggendo un libro.

Ingegneri e architetti senza laurea, ma con un’intelligenza fatta di pratica e di ingegno. Quella che hai dentro, innata, che esplode solo con tanto impegno e tanta fatica.


In casa nostra, la mia dolce nonna Meluzza diceva:

«Chiama Lioncell (zio Franco), ca sa far tutt».

E lui arrivava, con la valigetta degli attrezzi in mano e la scala sempre pronta nel baule dell’auto.


Lo trovavi nelle case di tutte le zie, arrampicato su una sedia, con un trapano sul terrazzo, sotto il sole cocente, riparato da qualunque oggetto facesse ombra.


Bastava un: «Fra’, mi è arrivato il lampadario», e lui già stava salendo i gradini di casa.


Sono uomini che non sanno dire di no. Dotati di un profondo altruismo silenzioso.



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Molti anni dopo, grazie ad Antonio, ho incontrato zio Giampiero. Anche lui, sangue della stessa grande famiglia Enel.

Negli ultimi due anni ha frequentato casa mia più di mia madre. Ha sistemato la camera da letto, montato lo scaldabagno, ripristinato innesti, restaurato mobili.


Una sera andò via la corrente. Lo chiamammo.

Arrivò con una torcia enorme, sembrava un faro di mare.

Aprì il quadro, contò i fili: due blu, due rossi, uno grigio.


«Attacca ora, Ga’» diceva.


E se saltava ancora, era sempre lui a trovare il filo giusto.


Immerso in quel quadro elettrico, mi ha ricordato me e Antonio con il cruciverba di Bartezzaghi: intenti a trovare la soluzione senza mai guardare su Internet. E loro, all’intelligenza artificiale, non chiedono mai nulla.


E proprio per loro – zio Franco, zio Giampiero – e per tutti quelli dell’Enel, non potevamo perdere la memoria di una delle esperienze collettive più importanti della nostra terra.


Un cuore industriale che ha dato energia non solo alle case, ma a migliaia di vite.


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La centrale Enel di Rossano fu aperta nel 1976.

Attorno a quella data ruotano storie e volti di uomini che iniziarono da ragazzini.

Molti di loro furono formati al Professionale dei Padri Giuseppini, che con dedizione e rigore pedagogico sfornarono i primi elettricisti dell’Enel.


Era un tempo in cui imparare un mestiere voleva dire aprirsi un futuro.

Dopo quella prima scuola, il passaggio obbligato era il Centro Addestramento Enel di Catanzaro, dove i ragazzi imparavano davvero tutto: reparto strumentale, parte elettrica, saldatura.


Il laboratorio strumentale lo chiamavano “l’anima della centrale”.

Era lì che si controllavano le apparecchiature, lì si regolava la turbina, lì si vegliava sulla sicurezza dell’intero impianto.


Lo stipendio iniziale era di 152.000 lire. Un tesoro.

Grazie alla Legge 285, si accedeva al lavoro con un anno di formazione.


Il massimo splendore si toccò nel 1979: 360 dipendenti diretti, 100 indiretti.

Una città nella città, dove le giornate si dividevano tra chi lavorava con orario giornaliero (8:00 – 16:30) e chi faceva i turni, anche di notte, per garantire energia senza interruzione.


Rossano crebbe grazie all’Enel.

Arrivavano persone da tutta Italia: da San Giovanni in Fiore, da Cotronei, da paesi lontani.

La centrale era un punto di convergenza, un’epopea industriale che dava senso a intere esistenze.


Poi, nel 2010, cominciò il declino. Una nuova stagione di chiusure.

Ma quello che restò fu l’umanità che si era costruita lì dentro.

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Perché all’Enel non si lavorava soltanto: si viveva.


C’era il circolo ricreativo ARCA che offriva ai dipendenti e alle loro famiglie servizi per il tempo libero. Nell’area di Sant’Irene trovavi campi da calcio, basket, bocce e tennis.

Nei tornei regionali, la squadra di calcio dell’Enel era quella da battere.

L’ARCA si occupava anche dello sviluppo locale del territorio, organizzando numerose sagre e feste che coinvolgevano l’intera cittadinanza.

La prima “Corri e Cammina” del Primo Maggio fu organizzata da loro — merito riconosciuto per quella che oggi è una tradizione irrinunciabile.


E non finiva lì: gite e vacanze per tutta la famiglia, attività ricreative per bambini, dibattiti su temi sociali.



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Ho avuto il privilegio di ascoltare le voci di Gino Campana, Franco Ambrosio, Franco Lopez, Franco Vitale, Carlo Cassano, Giovanni Pace, Biagio Lauria, Giampiero Mercogliano, Franco Lioi, Morini Ezio, Lepera Antonio, Lepera Giuseppe e Fontanella Rosario.


Mi hanno raccontato la loro vita in centrale come si racconta un grande amore.

Si sono commossi guardando le torri spente, gli impianti completamente fermi, un silenzio irriconoscibile e assordante allo stesso tempo.


La chiusura della centrale è stato un lutto.

Non solo per loro, ma per tutti noi giovani che avremmo potuto ricevere l’arte di un mestiere che oggi rischia di restare non tramandato.


Perché lavorare non è sempre e solo un dovere.

Se sei dentro un’azienda che ti rispetta, che dà valore alla tua vita, ai tuoi affetti, alla tua dignità prima del profitto, allora sì: lavorare diventa una scelta, non una condanna.

Un atto quotidiano che ti permette di far emergere il meglio di te.


Ecco perché vale la pena ricordarli, onorarli, raccontarli.


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Perché esistono esistenze che sono un inno al lavoro.


E in quelle condizioni nascono le comunità vere.

Si respira un’aria di festa, di solidarietà autentica.

Si lavora e si cresce insieme. Si diventa adulti migliori — al lavoro e nella vita privata.


E tutto diventa ciò che dovrebbe sempre essere: una strada per restare umani.

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