Unità Pastorale Centro Storico
- voci coro
- 6 mag
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 12 mag
Fede che resta, comunità che resiste
Cento passi separavano la casa di Peppino Impastato da quella di Gaetano Badalamenti.
Cento passi separavano la casa dei miei nonni dalla bottega di “Mastro Totonno” che ogni giorno apriva le porte verdi grigiastre su Piazza del Commercio vendendo sigarette agli accaniti fumatori e caramelle di ogni tipo ai bambini golosi che vivevano nel centro storico di Rossano.

Nonno fumava le sue MS con il medesimo piacere che hanno tutti coloro che lavorano con operosità e fatica e, finalmente, possono gustarsi quel tanto atteso attimo di rilassatezza. Ne teneva il pacchetto, rigorosamente morbido, nella tasca dei pantaloni o, d’estate, nel taschino di quelle sue inconfondibili magliette a righe dai colori pastello.
Riesco ancora a vederlo in piedi, vicino al tavolo, intento a estrarlo con le sue forti mani, rendersi conto che le amiche fumanti sono quasi terminate e dire a me e mio cugino Enzo :
“ Beh! iatm accattatm i sigarett “
All’epoca quella esigua distanza mi sembrava insormontabile.
Pigro e paffutello temporeggiavo sempre, mentre Enzo, agile e veloce come una gazzella, si fiondava giù per le scale felice di assecondare i desideri di quel nonno che amava tanto e che con il tempo avrebbe sempre più impersonificato, tanto che oggi, nel guardarlo, mi emoziono vedendo nel suo viso gli stessi fieri e gentili lineamenti di nonno Totonno.

Sono passati ormai diversi anni da allora e quei cento passi mi capita di farli spesso: con Gabriella, con Renè, da solo, con le cuffie in testa, con la pioggia, sognante, affannato, triste, con il cappello, pensieroso, arrabbiato o immerso nella preghiera.
In questi ultimi mesi, ogni venerdì sera, li ho percorsi con l’entusiasmo dei “fanciulli gridando sulla piazzola in frotta, e qua e là saltando, fanno un lieto rumore” avendo trovato il mio sabato del villaggio nel musical “Il Risorto”.
Insieme a Gabriella ho accettato quasi per gioco l’invito di Annarosa, donna minuta dal temperamento fiero, risoluta come un prode guerriero romano, ma dolce e sensibile come una madre premurosa.
Nell’arco di un paio di prove, da inebetito per tutto ciò che non riuscivo a comprendere, mi sono ritrovato folgorato; rapito dall’entusiasmo travolgente delle donne che, irrompendo nella scena, agitavano le mani come se volessero scuotere gli animi di un pubblico che soltanto loro riuscivano a scorgere tra i banchi vuoti della Cattedrale.

La voce limpida di Pina mi ha scaldato il cuore nelle fredde serate di inizio primavera e il suo lento, solitario andare per il presbiterio mi ha dolcemente ricollegato ai tanti ricordi delle mie estati adolescenziali, trascorse tra le mura barocche di questo meraviglioso luogo sacro.
I nuovi abbracci con Carmela, le risate con Mena, le chiacchierate con Giulio sono state epifanie di ricordi gelosamente custoditi nel cuore che hanno trafitto lo spazio come se il tempo non fosse mai trascorso, come se per tutti questi anni ci fossimo aspettati per vivere insieme questo attimo.
“Tu farai Caifa” mi ha detto una sera Luigi, il direttore artistico del musical, che instancabilmente ha diretto con maestria la regia dell’evento, curando ogni minimo dettaglio con la maniacale precisione di colui che prende a cuore tutto ciò che fa; sorretto dalla fede e dal desiderio di rendere indimenticabile lo spettacolo per la sua Rossano, ha tenuto a bada i cinguettii delle tante donne, le distrazioni calcistiche degli uomini, i ritardi dei più, le assenze intermittenti, i problemi tecnici ed ha sopperito a tutti gli indugi nelle voci o nella recitazione conoscendo perfettamente ogni attimo dell’opera.
“Devo cantare? Io? Ma non ho mai cantato in pubblico, come farò?” ho iniziato a chiedermi ansiosamente.

E così nei giorni a seguire, per non deludere il regista, mi sono ritrovato errante per le strade della città ad ascoltare con attenzione il brano, cercando di cogliere le sfumature della voce e l’intonazione corretta.
Insieme a Gabriella, a casa o in auto, abbiamo ripetutamente chiacchierato sugli attacchi :
“Qui! Devi cantare ora. No, sei in ritardo! Qui!”
Nelle notti silenziose mi sono ritrovato, solo, a declamare il mio monologo :
“ Tu l’hai detto“ ho gridato con enfasi davanti al Gesù arrestato dalle due guardie.
Davanti a me, nella piazza vuota, a due passi dai gradini che portano all’Emporium, ho immaginato tante volte il sorriso accogliente e contagioso di Aldo il cui volto mi è stato da fedele compagno lungo tutte le prove. I suoi occhi vivaci, i suoi gesti sincronizzati da elegante nuotatore, il suo canto emozionante, il suo pragmatismo e il suo amore per Dio e lo spettacolo tutto mi sono stati da fidi alleati. Nei momenti di sconforto per la voce che stentava, negli attimi in cui non padroneggiavo ancora il movimento delle mani o semplicemente per affinare la recitazione mi è bastato volgere lo sguardo a lui per trovare coraggio e rassicurazione.

Le donne della turba mi hanno seguito nell’immaginario agitando le troccole con la veemenza tipica dei giovani che seguono la processione del Venerdì Santo, hanno cantato all’unisono mentre nella mente contavano timorose per non sbagliare il tempo e hanno agitato le braccia verso Pilato seguendo l’incitamento di Suor Marianna, calata nella parte come una perfetta attrice.
Qualche sera dopo la prima rivelazione, il regista mi ha assegnato un nuovo compito, quasi volesse centellinare le informazioni e non creare ansia in un suo nuovo teatrante :
“Dopo Caifa ti cambi e diventi un apostolo” mi ha detto con il suo consueto fare risoluto.
“Apostolo? E che devo fare? Ballare?”
Nuove domande sorgevano in me, ma non ero solo, non lo sono mai stato.

In soccorso sono arrivati prontamente Agostino, calmo come il moto soave delle nubi in un caldo e sereno mattino di agosto, il silente Antonio dai modi pacati e gentili, Alessandro pronto a girare, incredulo, per la scena ripetendo come un mantra quel “ho i miei dubbi” che ha dettato i tempi del mio andare, Emanuele la cui voce mi ha cullato come la violinista Hilary Hahn riesce a fare ogni qualvolta sale sul palco per uno dei suoi concerti, Francesco dall’energia a tratti impetuosa ma foriera di entusiasmo per il gruppo , Umberto che ha saputo stupire tutti e tutte con la sua precisa performance dell’ultimo istante, Mario che timoroso e titubante per la paura di non rendere giustizia al suo pezzo da solista ha saputo interpretare alla perfezione il ruolo di Tommaso con voce sicura e presenza intensa e infine i due di Emmaus, Andrea e Giacomo, il primo emblema della gioia autentica di chi sa che sta vivendo qualcosa di speciale e il secondo, gigante buono dalla risata contagiosa la cui ironia leggera ha saputo stemperare ogni attimo di tensione.
Abbiamo cantato, ci siamo guardati intensamente negli occhi, ci siamo stupiti per una voce giunta all’improvviso a rompere la paura dell’abbandono, ci siamo abbracciati e abbiamo gioito insieme.
Le nostre mani si sono afferrate, strette saldamente le une alle altre per creare un cerchio di pace e ci siamo lanciati in un ballo ordinamente sgraziato cercando di emulare le artistiche movenze di Carmen che da esperta ballerina ha guidato l’intera compagnia.
Carmen è stata il corpo in movimento, la bussola scenica.
Sempre presente, mai distratta. Le sue correzioni, anche quando taglienti, erano impastate d’affetto; bastava guardarla mentre ripeteva per l’ennesima volta un passo, un movimento delle braccia, una disposizione nella scena, per capire che ogni gesto era una dichiarazione silenziosa d’amore verso il gruppo e verso l’opera.

E ora che tutto è terminato non sento “tristezza e noia” della domenica declamata dal Leopardi.
“Ciascun in suo pensier farà ritorno” continuava il poeta e anche io ritorno alla mia quotidianità, ma lo faccio con il cuore ricolmo di gioia per aver incontrato un gruppo di persone meravigliose.
Tante le ho dimenticate nel racconto, ma tutte le ricordo con affetto e tutte contribuiscono con opere concrete alla edificazione di quella chiesa viva, popolare, fatta di persone che si mettono insieme per costruire fraternità e speranza.
Persone che per la maggior parte vivono nel centro storico e che senza proclami o passerelle hanno compiuto gesti veri per la rinascita della loro città.
Settimane fa, partecipando a un evento, ho sentito parlare istituzioni, comunicatori e lobbisti di marcatori identitari distintivi e di altre fantomatiche idee per ripopolare i centri storici della città, ma la realtà è che nella fede semplice e non urlata c’è la radice vera di questa terra, che non ha bisogno di bandiere ideologiche per esprimere il suo senso di appartenenza.
Perché ciò che abbiamo vissuto non è solo esistenza: è restanza, è radicarsi nel cuore di un luogo, abitarlo con l’anima e lasciarvi, insieme, una traccia di luce.



Commenti