Via Roma
- voci coro
- 8 apr
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I primi 70 metri a sinistra
Quando è arrivato il Covid io vivevo a Napoli. Da tre anni. E la amavo, “assaje”. Di quell’amore viscerale che hai per le città che ti adottano, che ti insegnano a respirare a un ritmo nuovo, più largo. Ma quando il mondo ha chiuso le sue porte, io sono salita in macchina, in fuga, come tanti. La mia Panda rossa correva di notte, tra silenzio e sirene lontane. Destinazione: casa. Rossano.
L’unico posto al mondo dove non mi sono mai sentita sola. Mai.
Stanca, sì. A volte malinconica. A volte annoiata. Ma mai, mai, sola.

La pandemia mi ha lasciato in eredità una cosa semplice e preziosa: la camminata. In quei mesi strani ho cominciato a mettere un piede davanti all’altro, ogni giorno, sempre verso la stessa meta: la Santa Croce. Con le cuffie nelle orecchie e la testa persa dentro qualche nuvola ho scoperto che camminare cura. Che ti solleva. Che ti restituisce.Poi, quando si è potuto, ho allungato il passo: le montagne del Pollino, i borghi della Calabria e della Basilicata. E lì ho sentito un piacere nuovo, sottile: la bellezza concentrata in cento metri quadrati. Come entrare in una casa con la porta sempre aperta. Ti accoglie. Sta tutta lì. Non servono taxi, né metro, né auto. Basta il migliore sorriso e delle gambe forti.
E poi, un giorno, eccomi su via Roma, a Corigliano Paese. Io, Antonio e la mia fedele macchinetta fotografica al collo. Quattrocento metri in salita che sembrano pochi, ma contengono un mondo.
Oggi vi racconto i primi settanta. I primi, preziosi, metri sulla sinistra.
A dare il benvenuto c’è l’alimentari dei fratelli Natozza. Un luogo che ha il profumo lento delle cose che non si arrendono. Ogni mattina, Gabriele e Vincenzo sollevano la serranda come fosse una bandiera. È un gesto piccolo, ma carico. Come dire: “Siamo ancora qui. Anche oggi.”

Dentro, il tempo sembra avere imparato a camminare con calma. Non si vende solo cibo. Si distribuiscono sorrisi a chi entra, si chiacchiera come si faceva una volta — senza fretta, senza distrazioni. Il banco è un altare laico, dove il prosciutto viene tagliato con cura, il formaggio viene pesato con rispetto, e le parole sono sempre più leggere del silenzio.
Vincenzo ha lo sguardo sveglio di chi conosce ogni cliente per nome. Gabriele ha mani solide, da uomo di terra, e un tono di voce che sa di casa. Insieme tengono in piedi qualcosa che altrove sarebbe già crollato: il senso della comunità.
La bottega è un atto di resistenza quotidiano. La loro Corigliano Paese non deve morire, dicono. Perché ogni volta che un negozio chiude, si spegne una luce. E loro, con ostinazione e amore, stanno facendo di tutto per restare accesi. Per non chiudere.
Esco. Faccio qualche passo, ed eccomi al civico 7. La Cantina. Dietro il banco c’è la signora Cenzina. Gli occhi di acqua, il cuore al collo: una catenina, un medaglione, dentro una foto. La figlia, volata via troppo presto insieme al marito. Perso anche lui. Cenzina parla sottovoce, ma il dolore le inumidisce lo sguardo. Eppure serve, sorride, accoglie. È una madre che continua a cucire pezzi di mondo, anche quando il suo si è strappato.

La cantina è un rifugio. Ci si va per bere un bicchiere, ma anche per sentirsi accolti.
Cenzina ci offre un rosso e brindiamo. Io la fotografo. Le prometto che tornerò con le foto più belle. E lo farò. Perché Cenzina ha un volto che racconta anche quando tace. Un viso che vibra di forza trattenuta, di grazia antica. Vorrei portarla con me, fotografarla sotto ogni luce, dentro ogni stagione. È una poesia che cammina.
Usciamo, andiamo avanti ancora qualche passo, ed eccola: la ferramenta. Una grotta viva, piena di metallo, di vernici, di oggetti antichi, appesi ovunque come in una foresta di ferro e memoria. Scatole su scatole, viti, bulloni, pennelli, colori — ogni parete è una mappa del tempo.
La bottega è dei due fratelli, come l’alimentari. Una storia che viene da lontano: il nonno era fabbro, forgiava ferro e futuro a mani nude. Poi il padre. Ora loro. Una dinastia di mani che lavorano, che resistono.
Parliamo con Cosimo, uno dei due fratelli. Ci racconta com’era via Roma: piena, viva, affollata. “Era il paese delle meraviglie”, dice con un sorriso stanco. “Ora rischiamo di chiudere. Ma il sogno resta: rivedere la gente camminare, entrare, parlare. Rivedere il paese vivo.”

E lo capisco. Perché qui ogni negozio è una stanza della stessa casa. E chiudere anche solo una porta, fa entrare troppo silenzio.
I primi settanta metri di via Roma sono un racconto a capitoli. Ogni bottega è un frammento vivo di paese, un’anima che respira, una mano tesa che dice: “noi ci siamo ancora”. Qui si resiste senza proclami, con piccoli gesti quotidiani.
Ma la salita non finisce. La strada continua, e lo fa come fanno le storie belle: lentamente, sorprendendoti. Basta fare ancora pochi passi, spostare lo sguardo di lato, ed ecco che si intravedono altre luci accese, altre serrande alzate, altri occhi che aspettano solo di essere incrociati.
Perché via Roma non è solo una strada. È una promessa lunga quattrocento metri.
E io, quella promessa, ho intenzione di seguirla fino in fondo.
Un passo alla volta. Una storia alla volta.



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